La relazione che cura
Capita spesso a tutti noi che quando usiamo un nuovo farmaco ci venga voglia di spacchettare il foglietto, il ben noto bugiardino, per capire se proprio quello fa al caso nostro e intuire gli esiti che si potrebbero avere nell'uso.
Ora, io paragono chi, anche soltanto per un minuscolo interesse, si informa e si avvicina al mondo della psicoterapia, a chi deve assumere un nuovo farmaco e appunto fa una cosa molto semplice, si informa.
E lui sa che in quel foglietto vi troverà con mirabile sintesi le risposte alle proprie attese e al perché proprio quel farmaco fa al caso suo e non un altro o, al limite, perché doverlo usare.
Ma nel caso della psicoterapia, dove non esistono bugiardini prestampati, come fa un individuo a capire se l'avvicinarsi a un percorso psicoanalitico è coerente e logico per il proprio essere e stare nel mondo, e sotto particolari condizioni che ammettano una buona qualità della vita?
La risposta più semplice e meno carica di supporti teorici, che può sembrare addirittura banale, è che risulta fondamentale questo avvicinamento nel caso in cui ci si trovi di fronte a un disagio che subito accompagnerei dall'attributo “psichico” e che viene variamente interpretato e reso manifesto.
Sempre più di frequente si presentano in consulto persone che lamentano una paura paralizzante di avere un mondo interno non decifrabile e affettivamente vuoto e queste paure si trasformano in richieste di aiuto che vanno ben oltre la classica configurazione nevrotica dei fenomeni clinici (ansia generalizzata, attacchi di panico, fobie specifiche ecc..) e richiedono un modello di azione terapeutica che poggia su una diversa concezione della psicopatologia e in generale della mente e del suo sviluppo.
Questi pazienti, non accorgendosi che stanno già chiedendo aiuto, mi rivolgono legittime domande su come funzioni la terapia. Mi chiedono come possa avviarsi e poi stabilizzarsi quel processo di cambiamento in grado di portarli verso una condizione psicologica e di vita migliori. Mi chiedono quale sia quel procedimento o quella strategia applicabile al loro caso e quali siano quegli elementi specifici che caratterizzano l’azione terapeutica. La domanda frequente che in modo più o meno esplicito viene formulata è quindi: perché la psicoterapia funziona?
È ben noto come già prima di Freud, padre della psicoanalisi, certi fenomeni che mettevano in rapporto terapeuta e paziente fossero ritenuti di un’importanza rilevante: basti pensare che già nella pratica dell’ipnotismo nel settecento e nell’ottocento la relazione tra l’ipnotizzato e l’ipnotizzatore era una forma di rapporto con caratteristiche regressive e di dipendenza tali da ricreare aspetti simili a quelli tra genitore e figlio. Ma il contributo di Freud nella creazione a livello teorico e clinico di un metodo per capire e poi usare tali sfumature relazionali come fonte del cambiamento fu il punto di partenza per ogni possibile sviluppo.
Oggi la derivazione di quella traccia metodologica è la Psicoanalisi Interpersonale, nel cui solco specifico si colloca la mia azione di terapeuta: una psicoanalisi che avverte il bisogno di recuperare la centralità della relazione umana, satura di sfumature affettive, che si va creando tra paziente e terapeuta. Il rinnovato interesse verso il ruolo del trauma e delle prime interazioni genitori/bambini nello sviluppo delle difficoltà psicologiche ha portato a prestare maggiore attenzione al clima emotivo in cui avviene il trattamento. In questo modello comprensione e relazione non sono separabili: la conoscenza psicologica del sé può svilupparsi solo nel contesto di una relazione in cui terapeuta e paziente sono costantemente coinvolti in una reciproca interazione.
Ciò che accade nella stanza di analisi non è distante da ciò che avviene nell’ambiente relazionale in cui l’individuo si muove, percepisce se stesso e percepisce gli altri, si confronta, si emoziona. Il paziente narra la propria vita e si raffronta a quei sentimenti e quei bisogni che sono stati la cornice inespressa della propria esperienza affettiva in quanto figlio, compagno o genitore. Il terapeuta ascolta e si impegna in un percorso di validazione consensuale in cui la realtà soggettiva viene pensata, ricreata e riformulata, acquisisce cioè senso e significato.
Si crea così tra paziente e terapeuta uno spazio mentale o campo psicologico del tutto particolare che sta a metà strada tra fantasia e realtà, libero gioco e verifica critica. Si crea un’ambiente buono, comprensivo, in cui diventa possibile esprimere i propri bisogni emotivi profondi e sentirsi accolti; in poche parole creiamo insieme una relazione significativa.
Ciò che quindi rispondo in prima battuta ai miei pazienti è questo: “la terapia funziona perché si crea una buona relazione". La terapia in fondo è un rapporto umano tra due persone che collaborano ad un fine comune: il cambiamento terapeutico; ma per fare questo è necessario costruire un rapporto onesto in cui ci si può fidare e mettere in gioco. In genere parole come queste generano un certo stupore e aprono il campo a nuove domande su cosa si intenda con “buona relazione”.
Quando ci riferiamo a buona relazione o relazione significativa intendiamo la necessità di sviluppare un clima affettivo positivo, empatico e volto alla riflessione, atteggiamento riconducibile metaforicamente ad una posizione di amorevolezza materna. È importante che il paziente percepisca lo spazio della terapia come il volto di una madre capace di contenere le angosce e restituire tranquillità. Tanto più il terapeuta riesce ad andare incontro al paziente con comprensione, pazienza e cordialità, tanto più ne trae vantaggio l’analisi: si crea una base sicura su cui affrontare, con la prospettiva di risolverli, i conflitti che prima o poi si presenteranno. Il paziente avrà così modo di confrontare il nostro atteggiamento con quello di cui ha fatto esperienza nella propria famiglia e per la prima volta, sentendosi al riparo dal pericolo di quelle esperienze, potrà serenamente immergersi e affrontare i temi spiacevoli della sua vita.
Tuttavia, affermando che la relazione è una delle componenti primarie dell’azione terapeutica, si corre il rischio di dare una risposta priva di utilità poiché astratta e concettualmente troppo generale. Occorre quindi fare chiarezza su quali siano i processi specifici che rendono la relazione un agente terapeutico. Per cui la successiva domanda posta dal paziente potrebbe essere: “Che cosa c’è in questa relazione che la rende terapeutica?”.
Diciamo subito che l’azione terapeutica svolta dalla relazione analista/paziente fornisce un’esperienza emotiva potenzialmente correttiva. Questa possibilità si basa sul fatto che il comportamento e le reazioni del terapeuta sono diverse dalle aspettative che il paziente si è formato attraverso le precoci esperienze con le figure genitoriali. Il comportamento del terapeuta tende quindi a non avvalorare le aspettative disadattive del paziente ma idealmente a sostituirle con aspettative e rappresentazioni più adattive. Sappiamo infatti dallo studio dello sviluppo infantile che gran parte di quello che il bambino impara di sé e del mondo interpersonale è mediato da una relazione di solidarietà con i genitori. I modi in cui siamo stati trattati dalle prime figure di accudimento rimangono inscritti dentro di noi e fanno parte della grammatica del nostro Sé, cioè delle regole esistenziali e relazionali che adottiamo per vivere la nostra vita. Tuttavia alcune cose che acquisiamo in quel periodo e poi non mettiamo più in discussione sono disadattive. Accade allora che come queste iniziali credenze siano state acquisite nell’ambito di una relazione interpersonale, anche per comprenderle a fondo e modificarle è necessaria una relazione interpersonale.
Per l’approccio terapeutico qui discusso non è solo il bambino ad acquisire un senso e una conoscenza di sé attraverso l’interazione cognitiva e affettiva con un'altra persona significativa, ma anche l’adulto.
La relazione che cura il disagio individuale si basa quindi sulla necessità di creare uno spazio mentale che non è più di uno solo ma sociale (due individui formano una società), in cui non vi è una netta linea di demarcazione tra ciò che è nella mente del paziente e ciò che è nella mente del terapeuta, tutto è costruito da entrambi in un complesso processo di negoziazione e di attribuzione di significato.
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